E’ nella crisi, nelle pieghe di una famiglia borghese disfunzionale che ci conduce con eleganza e maestria Elizabeth Strout con I ragazzi Burgess, romanzo americano del nostro tempo. E’ un libro del 2013, edito da Fazi, della scrittrice premio Pulitzer considerata una delle voci più autorevoli della letteratura contemporanea. Uno stile asciutto, chiaro, come sa essere certa narrazione nordamericana, privo di inutili virtuosismi e capace di tenerci incollati alle pagine. Sono passati alcuni anni dalla sua uscita ma I ragazzi Burgess resta un romanzo da rileggere, regalare, sfogliare. In effetti ho tentato anche di donarlo ma il gesto come il libro credo siano rimasti incompresi. Tant’è che la recensione non può che iniziare dalla piccola località del Main, Shirley Falls, dove i tre fratelli Burgess hanno trascorso gli anni della giovinezza prima di separasi. I due maschi, Jim e Bob entrano nel vortice del rumore newyorkese, la sorella Susan, sorella gemella di Bob, resta invece su quelle colline della provincia americana. Ognuno per la propria strada, distanti ben più di quando non lo siano materialmente, i fratelli Burgess affrontano la loro maturità tenendo dentro i drammi dell’infanzia, il padre morto investito dall’auto sulla quale stavano giocando.

Come avrebbe potuto descrivere ciò che provava; il diffondersi di un dolore così cocente da risultare quasi erotico, il desiderio, il silenzioso rantolo interiore, come se si trovasse di fronte a uno spettacolo di una bellezza inesprimibile; il desiderio di posare la testa sull’ampio grembo morbido della sua città, Shirley Falls.

Un romanzo sulla famiglia, dicevo, uno spaccato della incomunicabile solitudine che pervade i rapporti anche più intimi, nella crisi dei valori, uno specchio della rete fragile che ci tiene legati agli altri. I ragazzi Burgess hanno avuto destini diversi. Jim è un avvocato di successo, nome di grido di uno dei più importanti studi legali di New York, marito e padre di tre figli già fuori casa, calca gli studi televisivi, è riuscito a far decollare la propria carrierra. Non è così per il fratello Bob, mediocre avvocato senza prospettive, separato e legato ancora alla ex moglie, ai limiti del depresso, con l’abitudine di bere sempre un bicchiere in più. Torna il Main con prepotenza quando la sorella Susan chiede il loro aiuto: il figlio Zachary è finito nei guai, e rischia il carcere per un crimine d’odio. In un gesto incomprensibile ha gettato una testa di maiale all’interno di una moschea dove stava pregando un gruppo di somali.

Che cosa farò Bob? Non ho più una famiglia”. “Sì che ce l’hai”, rispose Bob, “Hai una moglie che ti odia. Tre figli che ce l’hanno a morte con te. Un fratello e una sorella che ti fanno impazzire. E un nipote che una volta era una nullità, ma a quanto pare ultimamente lo è un po’ meno. Questo è ciò che si definisce una famiglia”.

Costretti a tornare, in una vicenda che coinvolge mogli e ex mogli, il passato e la madre rimasta in quella casa gialla sulla collina, è con il dramma legale ai limiti del grottesco che arriva un secondo livello di lettura. Elizabeth Strout introduce e fa crescere, piano rispetto al ritmo del libro ma in maniera forte rispetto alla brutale chiarezza e dei concetti, le grandi questioni sul razzismo, sulla convivenza con i musulmani post 11 settembre. E’ rude nel farlo dire ai suoi personaggi, è intensa nel regalarci intanto immagini uniche di questi viaggi verso il Main. Dove è la ricerca di senso, prima che della famiglia, al culmine di gelosie e viltà, a imporci amare e importanti riflessioni.
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