La luce delle candele illumina la stanza quando decido di scrivere la recensione dell’ultimo libro di Erri De Luca, Il giro dell’oca. Con le parole crea il suo Pinocchio, il figlio mai avuto che vede in una apparizione convincente all’angolo della stanza mentre legge la fiaba senza tempo del bambino di legno. E’ un uomo che misura la propria vita in una struggente, a volte lontana ma sempre intimissima confessione che appare come un flusso di coscienza, un monologo alla luce del caminetto in una notte in cui sceglie di raccontarsi all’uomo che vede di fronte a sé ma che non esiste. Il figlio abortito da una madre troppo giovane ormai tanti anni prima. Con questo volo sulla paternità, leggero ma intenso, lo scrittore napoletano va oltre il senso stesso del rapporto padre figlio negato ma esistente nella sua potenzialità, per tracciare un percorso negli anni, nelle immagini, dritto su quella scogliera a guardare nello strapiombo la vita dietro le proprie spalle.

Scopro così la trama di una vita e non di un libro, in cui gli aspetti autobiografici, l’infanzia a Napoli, la voglia di andare lontano, le guerre, il rapporto con i genitori, si intrecciano con le riflessioni su categorie più ampie dell’esistenza. Il figlio mai avuto che è lì silente per la prima parte de Il giro dell’oca, ma comunque vivido nell’urgenza espressiva di un padre che intende scoprire le carte con se stesso rapportandosi a un uomo, un adulto, con cui non è alla pari, ma un padre. L’escamotage è narrativo, ci tradcina dentro l’intimità riflessiva, dei ricordi, di un percorso, in un libro emotivo e malinconico.

Sono di epoca antica, piango per un lutto, una salvezza, il ricordo di chi avvisto in sogno. Sono diverse le lacrime tra loro, leggere, accalorate, liete, gravi, inutili. I miei occhi antichi si svegliano prima di giorno, avviano il primo caffè che è ancora notte. Sto parlando da solo? Sto inventando la tua compagnia? L’invento così forte che la realtà non la può pareggiare. La tua presenza basta qui e stasera a fare la mia paternità.

Con frasi quasi sempre brevi, in neretto nel libro, il figlio a un certo punto parla, prende forma anzi dalle parole del padre e interloquisce. Pone domande. Lo fa ragionare. Ancora strumenti narrativi che Erri De Luca utilizza per fare de Il giro dell’oca una partita con se stesso, nella quale, voltando le pagine, ci sembra quasi di essere di troppo, tanta è l’intimità, la dimensione privata. E’ difficile per me dire cosa penso di questo libro. Mettiamola così, in questi giorni di quarantena forzata per via dei malanni di stagione ho avuto modo di pensarci. Il libro l’ho finito già l’altra settimana, ma la recensione non riuscivo a metterla giù, colpa anche della febbre. Ma c’è di più. Il libro non è mi è piaciuto e so di tirarmi dietro le ire dei cultori di Erri De Luca. E’ scritto d’incanto, sia chiaro. Ma già l’impianto narrativo del dialogo con il figlio mai nato mi ha subito urtato. La malinconia, la dimensione privata nella quale ho riconosciuto però lo spaccato di una società, mi hanno appesantita in un modo probabilmente eccessivo, rendendomi la lettura una fatica. Concluso in due giorni, che sono sembrati infiniti. Non era il momento adatto? Forse è così, ma certo non mi ha raggiunta.

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