Cosa è la poesia? Cosa la letteratura? Chi decide oggi quanto si vale come scrittore, il web, i followers, i “k”? Una raffica di domande con le quali iniziare una recensione del libretto di Francesco Sole, Ti voglio bene. Una presunta raccolta si poesie. Più che altro l’occasione per riflettere insieme su quel fenomeno che dai social, dalla rete, sotto forma di influencer sta condizionando le scelte delle case editrici e anche la cultura. Franceco Sole è un mezzo guru social influencer (ma sì mettiamole tutte) diventato scrittore attraverso un meccanismo che sta diventando sempre più prassi in questa nostra epoca. Ho tanti followers, tipo ai livelli di milioni, che sia instagram o you tube, magari entrambi, scrivo, vengo seguito, la casa editrice mi nota e mi premia. Followers vuol dire copie vendute. Esiste a un certo punto di questa catena decisionale una valutazione artistica? Qui mi fermo. Tengo tra le mani Ti voglio bene. Libricino piccolo formato, da portare in borsa, nella tasca dello zaino. Poco più di 200 pagine per 66 poesie. Leggo la prima e la fotografo, la inserisco tra le stories un po’ ovunque.
Cosa ho fatto?
Vado giustificata, il momento è quello che è. Allora se trovo le parole in giro, le afferro, anche se vengono da Francesco Sole, chi se ne importa. Parla della mancanza, della conversazione sul telefono che rileggiamo la sera, la foto che riguardiamo, l’assenza. Lasciamo stare. Poi mi addentro nel libricino e la catena delle ovvietà si impadronisce di me. Come i film trash però non posso smettere. E’ meno di una chiacchierata con una amica, meno persino dei pensieri che possiamo avere in testa in questo momento. Però queste poesie (?) sono piane, lisce, parlano di sentimenti semplici. Non c’è niente di quella magnifica e feroce capacità di rendere straordinaria la nostra esperienza emotiva. Non c’è niente del mare profondo di Lorca, della passione di Neruda, delle foglie d’erba di Whitman. E nemmeno un cavallo su cui scommettere insieme al vecchio Buck. Ma se questa è la poesia che i social indicano come arte siamo costretti a dire di sì? Forse basterebbe non definirla così.
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