C’è una città che si chiama Holt. Il posto che mi ha ospitata questa estate. La recensione è una fotografia di questo luogo immaginario, nato nella mente dello scrittore americano Kent Haruf, scomparso nel 2014, autore magnifico della Trilogia della Pianura, voce unica – a mio parere – della letteratura americana contemporanea. Chi ha amato con un atteggiamento quasi devoto William Faulkner, io l’ho fatto, si troverà a proprio agio tra le pagine dei libri di Haruf che riesce  a condurci tra le vite del nostro tempo, a renderci parte di esse. Non c’è l’eccesso della descrizione, la verità della rassegnazione e della speranza si appiglia alle singole parole, che sono ferme, sole, asciutte. Voglio raccontare come sono entrata in contatto con la Trilogia della Pianura. Mese, i primi giorni di luglio. Location, la mia libreria di riferimento, in provincia, dove la terra non sembra avere la vastità di Holt ma forse lo stesso rude peso. Ho un carrello con me, dentro c’è una borsa. Forse è questo elemento a indirizzare mister book verso consigli da vacanze immintenti. Lo chiamo così nella mia testa, mister book, ma voglio precisarlo, non c’è davvero alcun riferimento a Sex and the City. Questa volta, no. Sono conosciuta in libreria per i carichi estivi. E’ un’abitudine portare con me durante le ferie una borsa zeppa di volumi, di solito quella bianca con i fiori neri che comunque non avrei più il coraggio di usare per il mare (ma quanti fiori). Il carico di libri non è mania dei record, ma un banale bisogno di opzioni. Così mi aggiro per gli scaffali, mister book mi intercetta cercando di assecondare la mia visibile inquietudine. “Voglio una saga, un posto dove andare”, me ne esco più o meno così, concisa e vaga. Lui non risponde, va dritto verso lo scaffale più basso e mi porge un libro. Lo guardo, lo rigiro, sfioro la copertina, la tocco, è leggermente ruvida, di un seppia polvere-strada-americana che mi sembra di sentire già la gola secca. “Leggi questo, Canto della pianura di Haruf”. Mi spiega che è uno di tre libri, slegati ma ambientati nella stessa cittadina, Holt. Insiste sul concetto: si possono leggere in qualsiasi ordine ma io decido in quell’istante di seguire quello cronologico di scrittura. Una scelta che si rivelerà saggia, e ancor di più scartare invece l’ordine di pubblicazione in Italia, incredibilmente partito dall’ultimo. Me li faccio consegnare tutti e tre. “La gente lo ama o lo odia”. Sono già convinta, non può convincermi di più. Me ne vado. Non mi aspetta la vacanza, ma un soggiorno in ospedale e un’estate da convalescente. Sulle mie personalissime montagne russe allora ho attraversato il Colorado fino a Holt.
La seconda volta che andò laggiù, accanto a lei c’era la ragazza, seduta sul sedile anteriore della macchina. La ragazza sembrava spaventata e preoccupata, come se stesse andando a confessarsi o in prigione o in qualche altro posto così spiacevole che ci sarebbe andata soltanto se costretta dalle circostanze e per nessun’altra ragione.
Canto della Pianura è il mio battesimo con il mondo di Haruf. Lo so che Holt è immaginaria, l’ho letto in tutte le lingue del mondo, eppure per me diventa subito reale. Davvero, non è una iperbole per colorare la recensione, con il primo capitolo su Guthrie, insegnante di storia con due figli, ho la misura esatta di aver messo piede in casa di qualcuno. Quel modo diretto e vivido di raccontare la quotidianità di personaggi che appaiono persone, diventa claustrofobico, quasi asfissiante nel mostrare la moglie di Guthrie, che passa le giornate al buio, chiusa nella stanza. Si arriva a percepire l’odore, viene voglia di precipitarsi ad aprire la finestra. Ma Holt, e me la immagino con le strade larghe e l’aria color ocra, è anche Victoria, la sedicenne incinta che incrocia il suo cammino con gli anziani fratelli McPheron. Li ho adorati, sbigottita per la compostezza di una sobria solitudine, mi sono seduta insieme a loro intorno al tavolo con lo sferragliare delle posate nel lavandino in sottofondo, ho ascoltato i passi salire le scale verso le camere da letto, mi sono scoperta fremere per lo squarcio di vita, improvviso, in quella routine di mucche e lavori in campagna. C’è un filo che lega, ogni pagina è un tassello che va a comporre un quadro vasto quasi come il cielo su Holt.

Certe volte penso che non ci siano mai stati tempi più folli di questi.

Con il secondo libro della Trilogia della Pianura, Crepuscolo, non solo si resta a Holt ma ritroviamo i personaggi che fanno i conti con l’evoluzione delle storie nella storia, e ce ne sono di nuovi, come il ragazzo che vive con il nonno, prendendosi cura di lui. E’ l’unico dei libri che è in qualche modo un seguito, dove c’è un post rispetto a Canto della Pianura. Il viaggio si conclude con Benedizione, terzo volume. Qui tutto cambia, se non qualche riferimento lontano a chi avevamo imparato a conoscere. Tra i tre, è quello che meno mi è arrivato ma ne riconosco comunque la forza, che poi è la forza della voce di Haruf. Dad Lewis si avvicina alla morte, circondato dalla moglie e dalla figlia, dai suoi dipendenti che si commuovono quando vanno a salutarlo a casa, sapendo che sarà per sempre. Al senso della fine si annodano le altre vite, quelle della casa accanto, della comunità, del nuovo reverendo, dei segreti di famiglia. Fa riflettere Haruf sulla colpa e sull’amore. Ma sempre senza enfasi, le emozioni sono lì, dietro le parole.
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