L’ansia è il minimo, la pesantezza è stata il colpo di grazia: tolgo di mezzo possibili equivoci per dirvi che l’acclamato romanzo Le sette morti di Evelyn Hardcastle non mi è piaciuto, ma ho apprezzato la bravura di Stuart Turton. E’ stato il libro scelto per il gruppo di lettura a luglio, quindi tornata dalle vacanze dove mi sono rallegrata con urban fantasy a fiumi, ho affrontato la prova. E’ partita subito così per me, non essendo (e voi che seguite il blog lo sapete) una appassionata di gialli. Ma il lavoro esordio di Turton è stato descritto come un mix di Agatha Christie e Black Mirror, un thriller psicologico, che ha mischiato generi, dal giallo classico all’horror. Così pur sapendo di partire svantaggiata, mi sono convinta, anche perché resto sempre dell’idea: alcuni libri possono anche non piacerci ma vanno letti lo stesso. Ed è sicuramente il caso del romanzo Le sette morti di Evelyn Hardcastle.
Vediamo un po’ di trama? Va bene.
Allora, in una dimora in stile vittoriano, in un tempo imprecisato che immaginiamo antecedente alla prima guerra mondiale, una serie di personaggi si ritrovano in occasione di una festa organizzata dagli Hardcastle per la figlia Evelyn. Sono gli stessi invitati che diciannove anni prima, erano ospiti sempre nel maniero circondato dalla foresta, durante un evento diventato tragico per la morte di Thomas, figlio degli Hardcastle. E un altro accadimento violento segna l’incidere del romanzo. Il portagonista è condannato a svegliarsi per sette giorni consecutivi nel corpo di altrettanti invitati alla festa. Ogni giorno si ripete per lui, non ha memoria di se stesso, e capisce solo a metà libro di chiamarsi Aiden. Si sveglia nei panni del medico, del maggiordono, del detective, personalità che provano a divorare la sua, impegnata a risolvere il mistero di un delitto. Alle undici, infatti, Evelyn viene assassinata in giardino. Il medico della peste, il personaggio più bello del romanzo, è un elemento estraneo al contesto che si inserisce solo per fornire a Aiden indicazioni e la speranza: individuando l’assassino, sarà libero dal meccanismo crudele.
Lo stile della scrittura è elevato, da romanzo del novecento. E questo l’ho apprezzato. Ma calato nella ripetitività claustrofobica degli accadimenti, perde anche la sua indubbia brillantezza. Perché non mi è piaciuto? Non è scattata la scintilla, l’ho letto a fatica e solo per dovere da metà in poi visto l’impegno con il gruppo di lettura. A proposito, lì grazie a Emanuele ho colto di più alcuni aspetti legati al tema del perdono (non dico di più per non spoilerare) e ho assistito interessata all’entusiasmo che ha scatenato in altri. Se c’è una cosa sicura, è che fa discutere.
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