Ci vuole fegato a essere Edna, Jacob, I bambini di Svevia, uno qualsiasi dei volti dimenticati nella memoria di una storia che l’Italia non conosce. Di cui si parla poco, troppo poco. E si scrive ancora meno. Il romanzo I bambini di Svevia di Romina Casagrande, edito da Garzanti, ha il pregio immenso di portarci dritti in quella pagina di storia. Dal ‘700 fino alla prima metà del 1900, nel Sud del Tirolo i bambini a marzo lasciavano le loro famiglie per incamminarsi in un lungo viaggio. Attraverso 200 chilometri di ignoto e di false speranze, i piccoli tra i 5 e i 14 anni raggiungevano la Germania. Una volta nelle campagne bavaresi venivano venduti alle famiglie di contadini. E lì era un colpo di fortuna capitare con gente che ti trattava dignitosamente, ma comunque per i bambini si prospettavano ritmi di lavoro impensabili e notti di nostalgia.

Edna è una anziana di 90 anni, da lei la società non sembra aspettarsi più niente. Eppure Edna, che vive con il suo pappagallo, serba dentro di sé una promessa fatta al suo amico bambino di Svevia, che ha conosciuto da piccola nelle fattorie. Così in un incredibile viaggio tra montagne e ricordi, in un percorso della memoria, di pacificazione con se stessa, Edna, accompagnata dal suo pappagallo, decide di tornare in quelle terre da dove era scappata da bambina, per cercare Jacob.

Edna era stanza. Si vedeva al centro di un bosco che non finiva mai, lungo un sentiero che saliva sempre più in alto. Non sapeva dove né quando si sarebbero esaurite le sue forze. Oppure se la disperazione se la sarebbe portata via prima di arrivare in fondo.

È un viaggio difficile, popolato di incontri e personaggi, si situazione rocambolesche, altre disperate, e di ricordi che ritornano alla mente. Il romanzo di Romina Casagrande, pur se con alcune debolezze, ha l’impatto di una storia che affonda le radici nella verità. E per questo non si dimentica.

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