Arrivi a metà e capisci: non voglio finirlo, La Macchina della felicità di Katie Williams, e invece ecco la recensione perché per quanto si combatta staccarsi dalle pagine è dura. Un romanzo fresco, nella trama e nello stile, quindi voglio subito dire che la Williams entrerà adesso nell’ampolla delle scrittrici da tenere sott’occhio, conosciuta per gli young adult è arrivata con questo romanzo pubblicato da edizioni e/o a un altro livello di narrazione. Allora iniziamo: siamo in un futuro non lontanissimo, anzi. La società è sviluppata tecnologicamente al punto da avere creato una macchina, l’Apricity, capace di misurare la felicità. Non solo. Una volta quantificato l’appagamento di una persona attraverso il dna con un tampone nell’interno della bocca, la macchina fornisce le indicazioni per diventare felici. Spiazzante, ironico, avvincente, si è detto che piacerà in particolare agli appassionati della serie tv Black Mirror, e secondo me a chiunque abbiamo voglia di perdersi in un romanzo.
Pearl è tra le più esperte a utilizzare la macchina della felicità, questa scatola di metallo capace con le proprie risposte di cambiare la vita delle persone. E’ il suo lavoro in una importante società con vocazione tecnologica, sottopone al test dell’Apricity e comunica il responso. Ecco la macchina della felicità è come un futuristico oracolo di Delfi ma con il piglio concreto. Dall’Apricity arrivano indicazioni del tipo, compra un cane, divorzia da tua moglie, tagliati la punta del dito. Richiesta a volte che sembrano assurde e paradossali. Pearl ha un figlio adolescente, un personaggio enigmatico, Rhett che ha smesso di mangiare volontariamente calandosi tra l’anoressia e i bibitoni che deve ingurgitare per non ritornare in clinica, in un mondo di privazione. Pearl vuole aiutarlo, ma il ragazzo si rifiuta di sottoporsi alla macchina della felicità. Tra colpi di scena, imprevedibili esiti e dialoghi, meccanismi mentali divertenti, spaventosi e così reali, il libro di Katie Williams è un’ottima scelta da portare in vacanza, o per evadere restando in città.
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