Non sarà una recensione tiepida, possibilista e aperta alle interpretazioni. La serie tv True Blood batte senza pietà alcuna i libri fantasy dai quali prende ispirazione, il Ciclo di Sookie Stackhouse di Charlaine Harris. La scrittrice americana va ringraziata per aver creato il mondo di vampiri sexy, licantropi, mutaforma, telepati e bevitori di birra, ma il paragone tra i due livelli di narrazione è impossibile. Lo dico con cognizione di causa, mi vanto e vi prego fatemelo fare, di possedere tutte e sette le stagioni in dvd di True Blood, oltre che la pila di libri. L’ho scoperto per caso, un’estate, il fenomeno True Blood, facendo zapping in tarda serata. Era un post uscita, ricordo ancora che ero di ritorno dal festival celtico qui in zona, dalle mie parti. Accendo e mi imbatto in scene del tipo: vampiri che succhiano sangue, tanto sangue che schizza ovunque, dialoghi surreali, una ironia pazzesca, e molto sesso esplicito. L’amore per True Blood, serie di Alan Bell del 2008, è scattato in maniera definitiva quando poi ho visto la sigla: una sequenza di immagini dove la violenza e la religione e il sesso si alternano a raccontare una storia del profondo sud degli Stati Uniti al ritmo di Bad Things di Jace Everett, in un convulso epilogo di espiazione.

 

I don’t know who you think you are
But before the night is through
I wanna do bad things with you.

 

Ho letto dopo aver guardato la serie. Magari l’errore è stato questo. True Blood si ispira ai libri ma se ne discosta già a partire dal secondo volume, nei personaggi e nella trama. Il primo, “Finché non cala il buio” ha la trasposizione in qualche modo più fedele nella produzione della Hbo.
Il racconto è ambientato in Lousiana, e già qui le pennellate a tinte forti della serie perdono colore nel libro. E’ una società nella quale i vamipiri sono usciti allo scoperto grazie all’entrata sul mercato della bibita miracolosa, il True Blood, sangue sintetico distribuito in boccette di vetro. L’accettazione del diverso è un filo conduttore dell’intera saga televisiva, dietro quella convivenza tra uomini e vampiri c’è molto di più. Anche se non è giusto dire nemmeno così, ridurre alla lettura da salotto. True Blood è un tripudio di trash.
Meraviglioso, eccessivo, straripante,  ipnotico trash.

   Sookie: Abbiamo qualcosa di cui essere felici.
   Bill: Non credo proprio.
   Sookie: Sì, invece. Siamo in un hotel per vampiri, è a prova di luce.

 

I dialoghi di Sookie già dal primo episodio sono l’apoteosi del nulla, questa ragazza bionda, nel libro è bellissima e scialba, sullo schermo è la brava Anna Paquin premio Oscar, dotata di un potere speciale, leggere nelle mente delle persone, si immerge nel mondo dei vampiri attraverso il tenebroso e tanto educato Bill, l’attore è Stephen Moyer e nella vita reale lui e Anna sono sposati. Pullulano personaggi con abilità e nature, streghe, lupi mannari, pantere mannare – nei libri c’è la tigre mannara – a cominciare dal secondo libro la trama diventa sempre più lontana, restano ispirazioni ma niente più.
Ogni stagione è incentrata su un tema, insieme a Sookie e Bill, c’è Eric Northman, il vampiro vichingo sul quale avrei da dire molto ma ho deciso di trattenermi, lui è interpretato da Alexander Skarsgard, lui ci regala una delle migliori scene di nudo in mezzo alla neve mai viste e prima di prendere fuoco lasciandoci con gli occhi sbarrati. Sono del parere che bisogna sempre schierarsi e io non sopporto Bill, ho tifato per Sookie e Eric sempre e comunque.
Ancora, il personaggio di Tara nei libri non c’è mentre nella serie è fondamentale, la migliore amica di Sookie, spesso insopportabile ma con una storia drammatica, e altro ruolo che nelle pagine è praticamente nullo ma che invece io ho adorato è quello di Lafayette Reynolds, cuoco al Merlotte’s, il locale di Sam Merlotte dove lavora anche Sookie e dove tutti vorremmo prendere una birra. Lafayette è anche spacciatore di sangue di vampiro, gigolò, medium, interpretato da un bravissimo Nelsan Ellis, morto purtroppo nel 2017.
Ci sono storie di alcolismo, di droga, un tragico (per il finale) amore gay, ma sempre con quell’eccesso del racconto, inconfondibile come un morso di vampiro.

 

All’improvviso la consapevolezza di quanto mi fosse mancato divenne un peso solido che mi gravava sul petto. Spalancai le braccia. Con cautela, lui sedette sul bordo del letto e si chinò verso di me, insinuando con estrema cura le braccia sotto il corpo e sollevandomi verso di sé, una frazione di centimetro per volta, in modo che avessi il tempo di fermarlo se mi avesse fatto male. Non lo ucciderò, mi sussurrò infine all’orecchio.

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