E’ un libro intenso, capace di produrre contrasto e riappacificazione, Storia della mia ansia in alcuni passaggi sembra quasi deludere per poi trascinarti con sé dove non ti aspetti. Ultima creatura di Daria Bignardi, giornalista e scrittrice, è la storia di Lea, protagonista femminile, figlia di una madre patologicamente ansiosa, consapevole ormai adulta e genitore a sua volta di essere incubatore di pensieri ossessivi che regolano il modo di agire. Uno schema di approccio alla vita stravolto però dalla malattia, Lea scopre di avere un tumore al seno, l’operazione, le terapie, l’amore, sono pagine di lei e di noi. Daria Bignardi ha rivelato in una intervista su Vanity Fair di aver scoperto il carcinoma proprio mentre stava scrivendo la prima stesura. Ma non è l’autobiografia che bisogna cercare, c’è lei ma c’è tanto altro, in questo libro dove non è il cancro il protagonista, né i tradimenti e nemmeno la guarigione. Storia della mia ansia è un libro su una donna e il rapporto più difficile che ha, quello con se stessa, nel pieno di una crisi che la traghetterà verso una nuova fase.
“Non avevo mai pianto da quando avevo saputo. Avevo dispensato battute sarcastiche e rassicurato i parenti”
C’è un doppio registro all’interno di Storia della mia ansia. Quello per i lettori e quello per i lettori che hanno conosciuto il cancro. Cercherò di scrivere una recensione senza pensarci troppo. Iniziamo dalle modalità con cui questo volume è arrivato nelle mie mani. Mi è stato regalato a fine febbraio da un uomo. Quando sono tornata a casa, la sera stessa, ho aperto, sfogliato, letto le prime pagine. “Ma hai idea di che libro tu mi abbia regalato?”, glielo ho domandato un paio di volte a distanza di giorni. Non riuscivo a capacitarmi, non comprendevo se fosse un gesto pensato oppure una casualità da semplice abbinata titolo e autore. Più ho continuato a leggere e più è montata, non voglio nasconderlo, una forma di ribellione verso il donatore di libro. Perchè Storia della mia ansia mi ha trattenuta a sé senza lasciarmi andare scatenando reazioni di ogni tipo. Sapete per via di quel doppio registro che mi ha davvero e inevitabilmente coinvolta. Non è la semplice esperienza narrata della malattia, è il rapporto con se stessa a lasciare secchi, come direbbe Holden passando di qua. Il donatore di libro si è difeso appellandosi alla casualità dell’acquisto, e io allora mi sono immersa in Lea e Shlomo. Lui è il marito israeliano, sostiene, “che innamorarci sia stata una disgrazia”, un uomo che non parla delle sue sofferenze (ma nemmeno della salute e del sesso), “la sua freddezza mi fa male in un punto preciso del corpo” dice Lea facendola percepire anche a noi.
Ho litigato di nuovo con Shlomo. Non succedeva dal giorno prima che scoprissi il tumore. I nostri scontri sono incendi velocissimi, divampano per una frase, in un istante, e si lasciano dietro un deserto di rancore e mutismo che dura giorni
La relazione tra Lea e Shlomo è sofferente, distanti nel carattere, nel modo di esprimersi, quando lei inizia il calvario della chemioterapia, si allontanano ancora di più. Lea si rifugia nella casa in montagna e si lega a Luca, conosciuto durante una seduta di chemio, un insegnante più giovane di quasi vent’anni. Storia della mia ansia non ti fa mai prendere le parti di qualcuno, leggendo non sei mai completamente schierata con Shlomo, anzi ammetto di averlo detestato per quasi l’intero libro, non ti piace però mai completamente nemmeno Luca. E quando i meccanismi ti sembrano quasi scontati, e Luca un cliché sulla via di fuga, capisci di non aver centrato il punto. Gli straordinari legami immediati che si instaurano tra chi, per dirla con le parole di Lea, combatte la stessa guerra, sono unici, annebbianti, totalizzanti. Ma sono le domande di Lea, il suo scoprirsi, la voglia di riemergere dall’acqua a determinare questo libro e farcelo amare nonostante tutto.
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